San Pietroburgo. Un viaggio fatto quasi vent’anni fa, perché era l’agosto del 2004, e che mi ha attraversata ad ogni sguardo, ad ogni passo, ad ogni indimenticabile respiro. Era la meta delle mete, a quel tempo, e lo è rimasta. E oggi, in questo clima che è quello che è, mi piace ripensarci. Per far rivivere tutto.
Come la sensazione che ti invade sulle scale mobili della metropolitana. Con quelle gallerie profonde che ti portano in viaggio verso il centro della terra. Scorrono veloci, in quei ben due minuti d'orologio, e sarà per questo che la gente ammazza il tempo come può e c’è chi si trucca, si pettina, legge un libro, fa altro insomma.
Si arriva ai binari e ci si deve, per forza, guardare intorno. Le stazioni sono belle, luminose, imponenti. Propaganda di un regime (risalgono al '55), grandiose non a caso, con lampadari enormi, mosaici bianchi e rossi, bassorilievi in bronzo con l'immagine di Lenin e un caldo da svenimento. Ogni minuto e mezzo, senza sgarrare mai, arrivano i treni con tanto di voce che annuncia la fermata. Con un po' di allenamento finisci pure per capire.
E sull’allenamento occorre lavorare, come sul fatto di avere una buona guida con sé, perché le scritte della metro, come di qualsiasi altro posto a San Pietroburgo, sono in cirillico.
Se ti perdi sudi freddo.
Avevo iniziato dall’inizio. Dalla prima casa di Pietro il Grande, l'edificio più antico della città, realizzato in tre giorni (per dire…) e abitato stabilmente per qualche settimana. Da lì, dalla casetta sull'isola Vasilevskji, lo zar vedeva crescere la sua città, costruita sul fango.
E’ una casa di legno di sole tre minuscole stanze. Si possono vedere solo da fuori.
Una “sala da pranzo” con un tavolo scuro ed un portafrutta dorato sopra, unico vezzo nella casa dell’essenzialità. Sedie semplici, ma ben due scrittoi, altissimi, dove Pietro, alto più di due metri, ma con solo un 38 di scarpa, scriveva le sue lettere stando in piedi.
E la camera da letto. Con un letto tanto corto che pare un divano da salotto.
Ti chiedi se il decalogo di vita dell’uomo che ha costruito tutto prevedesse anche di dormire rannicchiato o forse un letto più grande non ci sarebbe stato in quella casa che ricorda la Baita di Heidi.
C'è un vestito rosso, appeso, con i bottoni dorati, sta in un angolo come se lo zar se lo fosse tolto un attimo fa. C’è una poltrona che è una specie di mini palestra, ha le molle sotto il cuscino. Pietro la usava per tenersi in forma. E non sembra di stare in un museo, ma di sbirciare dalle finestre della casa di fronte, tanta è la realtà che si respira dentro a questa manciata di metri quadrati.
Da lì si apre una vista totale sulla città. Il posto perfetto per guardare, con l’ampia scalinata che scende sul fiume e i due muretti ai lati della scalinata che sostengono i leoni in pietra, il posto perfetto da cui veder crescere un impero.
Sempre sull'Isola Vasilevskji, si arriva alla Fortezza di San Pietro e Paolo che fu prigione politica di personaggi "illustri" (Dostoevskj, il figlio dello zar, Trotzky, il fratello di Lenin).
E più illustri erano e peggio gli andava, si vede, perché si respira un'aria bestiale nelle celle e ancor peggio nella cella d'isolamento. E sperimenti il freddo più atavico che si possa immaginare.
E’ sempre tutto scritto in cirillico, ahimé, ma c’è un’anziana signora che fa da guida e ci spiega poche cose con le poche parole inglesi che sa. Ha un'aria severissima, da istitutrice, che si intona con tutto il resto, ma poi fa tenerezza perché s'impegna disperatamente a spiegarti come può. Con quei muri screpolati, l'odore di umido e la quasi totale assenza di luce scappi, comunque, dopo tre secondi netti.
Alla cattedrale di S. Pietro e Paolo in cui sono conservati i resti di tutta la famiglia reale da Pietro in poi. Manca, ovviamente, la tomba di Anastasia, la figlia dello Zar che ha diviso il mondo dichiarandosi, fino alla fine, unica superstite al massacro dei Bolscevichi. Mistero, forse, risolto da uno studio sul DNA che nega la possibilità che possa trattarsi davvero della granduchessa, ma che non spiega come questa donna potesse conoscere tutti i particolari della vita alla corte dei Romanov e come potesse essere identica alla vera Anastasia anche in alcuni difetti fisici.
Nella stanza accanto c’è una specie di "sacrestia" commerciale dove si possono acquistare i souvenir più disparati. Il pezzo migliore: la collezione dei manifesti di propaganda sovietica con cui la gente è stata manipolata per 70 anni. C’è perfezione psicologica in quelle immagini e in quei messaggi. C'è Stalin, ogni due per tre, con un'espressione paterna e benevola, ci sono gli operai felici di lavorare tutti per una causa comune e immagini di distese oceaniche al Cremlino sotto lo sguardo trasognato di Lenin e Stalin. Documenti di un lavaggio del cervello feroce, di un massacro della volontà. Me ne sono comprata una collezione da venti pezzi. Un pezzo di storia.
E poi vai alla Kunstcamera. Il museo assurdo, a tratti inquietante, voluto sempre da Pietro, consapevole dell'arretratezza della Russia di inizio '700, per liberare il suo popolo dalla superstizione e dall’ignoranza. Affinché i suoi sudditi visitassero questo museo in fieri, organizzava banchetti in cui venivano offerti cibo e bevande. Affinché le persone ignoranti si liberassero da miti sbagliati, dalle ossessioni legate alle superstizioni, invitava la gente, dietro pagamento, a consegnare feti malformati, umani o animali, affinché questi potessero essere oggetto di studio e fosse possibile progredire nel campo della medicina e della scienza.
Se si è solo che un po' deboli di stomaco, la Kunstcamera è dura davvero.
Non ci sono dipinti o opere d'arte, ma oggetti d'uso quotidiano provenienti dai posti più lontani della Russia. Dall'Alaska, prima che venisse venduta all'America, da Siberia, Cina, Giappone, Africa. E strumenti per l'astronomia, l'odontoiatria, la falegnameria.
Tutte discipline e attività in cui lo zar era provetto. Prima di diffondere conoscenze nuove nel paese, imparava lui stesso ad usare quegli stessi strumenti d'avanguardia. Si improvvisava dentista e costruiva mobiletti intarsiati che rimangono ancora oggi nei musei.
Un innovatore, questo Pietro. Crudele quanto vuoi, ma con un’apertura senza precedenti nei confronti dell'occidente. Non a caso, gli architetti che hanno avuto un ruolo fondamentale nella costruzione della città sono quasi tutti italiani e francesi.
E poi vai alla Basilica della Resurrezione. E inizi una specie di sogno ad occhi aperti. Splendidamente russa in tutto e per tutto, ispirata a San Basilio a Mosca, sulla riva del fiume Mojka che riflette i mille colori di quelle vetrate perfette.
Entri dentro e provi a girare su te stesso e non c'è uno spazio, un attimo, una parete, un angolo che non sia ricoperto da un mosaico.
E' uno dei posti in cui ho trovato la Russia che cercavo. Anche se una parte dell'iconostasi è stata realizzata con un marmo fatto venire proprio da Genova.
Dalle vetrate in alto filtra la luce e crea delle geometrie irregolari che non puoi dimenticare.
Come l’episodio a cui ho assistito all’esterno della basilica.
Trecento vecchine, con un viso perfettamente consumato dal tempo e dalla vita. Tutte con il fazzoletto in testa legato stile Lara nell'ultima scena del Dottor Zivago, musica sacra diffusa da mega-altoparlanti, i pope che benedicevano queste donne in lacrime che si facevano il segno della Croce a ripetizione e, ovunque, immagini di un ragazzino con una divisa addosso.
Vieni a sapere che si tratta della funzione per l’anniversario della nascita di Aleksej, il figlio dell'ultimo zar, ucciso anche lui dai Bolscevichi. La commozione di queste donne è reale e profonda, una partecipazione che è il risultato di 70 anni di fede e devozione represse. Un coinvolgimento come se tutto fosse accaduto il giorno prima.
Ti senti sempre ad un solo passo da un passato lontanissimo a San Pietroburgo. Anche sull’Incrociatore Aurora, da dove è partito il primo colpo di cannone della Rivoluzione d’Ottobre.
Ti prende una strana emozione, perché è il simbolo della fine e dell’inizio.
C'è un fascino singolare, con tutto quel salire e scendere le ripide scalette con le corde ai lati che ti portano da un locale all’altro. E quel guardare il cielo e il fiume grigio da vecchi oblò con i vetri doppi. Anche qui, l’immagine che si fa spazio negli occhi e nel cuore è quella di un ricordo, come fossero davvero il cielo e il mare di un secolo fa. Dentro ci sono le foto degli equipaggi che hanno fatto la storia di Aurora, le cabine da guerra, il refettorio con tutti i pentoloni da rancio, la sala radio, il dormitorio e l'immancabile bancarella che vende tutti i possibili stemmi e le spilline del passato regime.
C'è una fila assurda di avventori, tutti giapponesi, che si portano via la metà degli stemmini esposti, si spingono tra loro come se dovessero arrivare primi per forza. L'addetta alle vendite è una vecchina che non parla altro che il russo, ma che si fa capire con una mimica facciale mobilissima, anche dai Giapponesi.
Sul ponte c'è un vento straordinario, si addice molto ad una visita su un incrociatore che ha fatto tre guerre.
Camminando là sopra è incredibile guardare il cielo tra le geometrie dei cannoni, delle bandiere, delle campanelle e delle corde tese, con il pavimento di legno che rimbomba ad ogni passo.
Mi fermo qui. Con il ricordo di quei passi nelle orecchie e nell’anima.
Quando sono tornata da San Pietroburgo, ho portato con me una specie di mal d’Africa che non era mal d’Africa, ma mal di Russia. La cercavo ovunque perché di quel luogo mi mancava tutto e non ha smesso di mancarmi mai.
Rimani splendida come ti ricordo, come eri nel sogno di chi ti ha voluta a tutti i costi.
Nell’attesa di tornare, in un futuro che mi auguro non sia troppo lontano, aiuta ascoltare “Prospettiva Nevskij” di Battiato. Sembra quasi di incontrare Igor Stravinskij.