Fra le tielle e la Villa di Tiberio. Ed il passato che insegna.
Un passo a Gaeta per mangiare un boccone. Proprio dove sembra finire il porto, prima della Scuola Nautica, notiamo un locale stretto e lungo, munito di dehor. Vorremmo assaggiare le tielle, piatto tipico della zona. Dalle recensioni trovate in rete pare non ci sia posto migliore.
E quindi entriamo. Lo spettacolo che si offre alla vista è un mare di tielle tutte diverse. Poi ci sono gli arancini, le focacce, le frittelle, ma le tielle sono il pezzo forte di questo esercizio. Al punto che, sul sacchetto in cui viene consegnata tanta bontà per i clienti, si legge questa frase: “Le Tielle. Quanta ricchezza c’è nella povertà.”
E infatti. Tra una tiella e l’altra, con le cipolle ed i pomodorini, le cozze e gli zucchini, la scarola, le alici e le olive od il polpo, non puoi non farti sorprendere da un’esplosione di gusto, un morso dopo l’altro. Una festa per le papille gustative in un piatto nato in povertà. Si riempiva l’impasto, simile a quello della pizza, con quello che c’era e via in forno. Il pranzo dei pescatori era servito.
Si rimane colpiti da quanto gusto si possa trovare in una specialità che non ha bisogno d’altro se non di ciò che già contiene. Niente uova, formaggio grana, ricotta… E si rimane colpiti da quella frase: “Quanta ricchezza c’è nella povertà”. Perché, si sa, lo stato di bisogno insegna. A creare qualcosa di gastronomicamente unico e ad intravvedere nuove strade, soluzioni geniali, idee che spesso cambiano il corso della storia e della nostra vita.
Quanta ricchezza c’è nella povertà. E quanta banalità può esserci se ci si fa sopraffare dalla sovrabbondanza. In questi nostri tempi strani, ad esempio, in cui abbiamo tutto il superfluo possibile e idee sentite mille volte, trite e ritrite. La povertà non è una condizione alla quale aspirare e siamo d’accordo. Ma mi chiedo se il pieno di tutto non ci abbia stordito e allontanato da noi stessi e dal nostro genio. Ci penso, gustandomi la tiella. Frutto geniale della necessità.
E non riesco a smettere di pensare a questo. Neanche poche ore dopo, passeggiando tra i resti della Villa di Tiberio, a Sperlonga. Dove si respirano ricerca della perfezione e la grandiosità di un pensiero. Di una villa imperiale nata per essere lontana da Roma, perché Tiberio amava governare lontano dalla frenesia. E questa Villa non poteva non essere lussuosa. Se ne vedono i resti e se ne intuisce facilmente la struttura del I secolo dopo Cristo, momento di massimo splendore. Un’architettura perfetta in un luogo perfetto, ad un passo da un mare che invita ad ogni onda che si frange sulla spiaggia. E poi c’è una grotta naturale, in origine arricchita con un complesso statuario imponente che rappresentava, guarda un po’, Polifemo accecato da Ulisse. Neanche la gestione dell’acqua, dentro e fuori la grotta, lasciava nulla al caso. Dentro una piscina circolare e fuori una vasca rettangolare che fungeva da peschiera. E sì, sono resti, ma sono resti perfetti. Risalenti a duemila anni fa. Cose fatte per durare.
E non posso pensare, tra le tielle e la visita a questo luogo che rimane dentro agli occhi, a come è possibile che ci siamo tanto involuti. In un paese in cui tutto si sbriciola, spesso poco dopo essere stato costruito. Si sbriciolano, drammaticamente, i ponti e non solo quelli. E neanche le idee e gli obiettivi ce la fanno a durare. Neanche il tempo di una legislatura, a volte.
Che cosa ci è successo? Ci siamo persi, un reality di cucina dopo l’altro (“tutta ‘sta gente che spadella…” commentò anni fa Paolo Poli) quando abbiamo inventato la cucina più buona e famosa del pianeta. Ed un costruire con la regola del massimo risultato con il minimo sforzo per favorire interessi ben lontani da quelli del cittadino.
Non è che Tiberio, nella grotta, aveva fatto porre un grande avvertimento, prima di tutto? Perché mi pare che, senza uno sguardo al passato, il rischio sia quello di finire come Polifemo accecato da Ulisse. E non vedere più ciò che siamo e che, soprattutto, abbiamo il dovere di essere.
