“Puoi essere tutto ciò che vuoi.”
E’ quello che risponde Wonder Woman ad una bimba che le chiede se un giorno potrà essere come lei (22esimo minuto circa di “Justice League”).
Non è una questione facile. Quella della realizzazione personale. Perché, a monte, è già complicato comprendere ciò che davvero si vorrebbe essere e la realtà in cui viviamo non è che aiuti.
Si nasce e si viene introdotti in un percorso già segnato. Da una società che ragiona a tappe prestabilite, con poca fantasia ed una quantità inesauribile di giudizio. Sempre pronto, sempre in tasca.
Si percorre un sentiero battuto. La scuola, il diploma, la laurea.
I sacramenti, il matrimonio, i figli.
Si sceglie di non proseguire un corso di studi e di imparare un mestiere?
“Beh, l’importante è che sia felice”.
Non ci si sposa? “Del resto, ognuno è libero di vivere come crede”.
Ci si sposa ma non si hanno figli? “Ma perché non li vogliono o perché non sono venuti?”.
Si esce, poco poco, dal seminato ed il commento si impone.
E si impone perché veder andare qualcuno volontariamente fuori pista fa subito strano. Ci deve essere un motivo per non fare quello che fanno tutti.
Non è facile, a prescindere, uscire dal percorso comune, capire se quello che fai, o che hai fatto finora, è farina del tuo sacco oppure no. E’ ancora più complesso se si considera quanto la pressione sociale possa risultare schiacciante.
C’è una questione, poi, che ha assunto particolare peso da qualche anno a questa parte. Ed è quella legata alle divisioni ispirate dall’alto.
Da un sistema che o sei una cosa o il suo esatto contrario.
Tertium non datur.
Un sistema che etichetta tutto, tipo pistola prezzatrice, con tanto di codice a barre, come si fa con i generi di consumo.
Siamo questo o quello. NoVax o ProVax, ProRussia o ProUcraina, Democratici o Intolleranti.
Occhio, però. Perché due possibilità sono quanto di più scarso e sminuente possa esistere per definire la complessità dell’essere umano.
Sono logiche che impoveriscono. E svuotano. Di significato e di umanità. Indeboliscono di prospettive e di risorse.
Mi piace pensare che siamo molto altro, e molto meglio, di questo o quello.
E dovremmo rifiutare, a prescindere, ogni etichetta.
Per i motivi di cui sopra e perché le etichette nient’altro fanno che dividere. E divisi si perde forza. In qualità di individui e di comunità.
E’ difficile non percepire, in questa mancanza di apertura nella società, un intento, un indirizzo. E il paragone con la pistola prezzatrice non è casuale.
Perché diventare, noi stessi, beni di consumo è un attimo. Nei percorsi di una società che ci indirizza dal primo respiro e nelle pieghe di un sistema che fornisce ed impone etichette funzionali solo a se stesso.
Per essere tutto quello che vogliamo, forse, il primo passo è decidere di non essere ciò che ci viene proposto dall’esterno e dall’alto.
Riflettere e chiedersi sempre quale sia il nostro autentico sentire rispetto a questa o quella questione. E rispettarlo. Anche se costa fatica. Anche a costo di apparire bizzarri agli occhi dei più.
E’ uno sforzo creativo, sì. Ma chi meglio di un supereroe può insegnarci ad essere noi stessi?
